Il 22 settembre l’Italia si fermerà. Non per un’emergenza interna, non per una crisi salariale o per l’ennesimo scandalo politico, ma per Gaza. Sarà uno sciopero generale, proclamato dall’Unione Sindacati di Base, che attraverserà il Paese dai trasporti alle fabbriche, dai porti alle scuole. Una mobilitazione che piaccia o meno ha il sapore della rottura, della denuncia, della voce che si alza contro il silenzio ipocrita delle istituzioni.
Lo dicono senza giri di parole: “Blocchiamo tutto, con la Palestina nel cuore”. È uno slogan che pesa come un macigno in un’Italia che da mesi si limita a guardare altrove, a balbettare dichiarazioni di “equilibrio”, mentre i bombardamenti riducono Gaza a macerie e vite spezzate.
Più di 60 manifestazioni sono già annunciate: Roma, Milano, Torino, Bologna, Genova, e poi le città più piccole come Caserta. Non è un corteo isolato, ma un mosaico di rabbia che ricorda a chi governa che l’opinione pubblica non è un foglio bianco da piegare con qualche conferenza stampa. Perché quando la politica si inginocchia davanti agli interessi geopolitici e alle lobby delle armi, la piazza diventa l’ultimo strumento di resistenza civile.
Certo, lo sciopero porterà disagi: treni, autobus, metro, fabbriche, uffici pubblici. E puntualmente arriveranno le solite prediche indignate di chi riduce tutto a una questione di traffico e puntualità dei mezzi. Ma qui la questione non è perdere un autobus o arrivare tardi al lavoro: è decidere se restare complici del genocidio in corso o se alzare almeno la testa.
Il paradosso è che servono i sindacati di base e i portuali per mettere al centro dell’agenda nazionale un tema che dovrebbe scuotere i Parlamenti. Mentre i governi occidentali si arrampicano sugli specchi per giustificare l’ingiustificabile, milioni di persone chiedono una cosa semplice: fermare la carneficina, smettere di armare chi bombarda, riconoscere il diritto di un popolo a vivere.
Lo sciopero del 22 settembre sarà dunque un termometro: ci dirà se l’Italia ha ancora una coscienza civile, se è capace di sacrificare una giornata di lavoro o di comfort per dire no all’ipocrisia. Sarà la piazza contro i palazzi, la società civile contro la complicità istituzionale.
E se anche solo per un giorno il Paese si bloccherà per Gaza, allora forse non tutto è perduto. Perché in un mondo che scivola verso l’indifferenza, fermarsi può essere il gesto più rivoluzionario di tutti.
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