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CASO VANNACCI. QUANDO IL POLITICALLY CORRECT SI INDIGNA E CENSURA LIBRI SENZA AVERLI LETTI

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Un’introduzione limpida, quella che apre l’analisi di Paola Ceccantoni (aka “Pubble”) attorno al tema caldo dell’opinione pubblica italiana in queste altrettanto calde ore d’agosto, quello del libro “Il mondo al contrario”del generale Roberto Vannacci, accusato di tutto il tradizionale armamentario di colpe attribuibili dalla macchina del politically correct: sessismo, razzismo, omofobia…

Un’introduzione, dicevamo, che mette subito in chiaro un fatto non da poco: buona percentuale di quanti criticano il lavoro letterario del generale, quel libro non l’hanno mai letto. Effettivamente il tenore dei commenti, perlomeno di buona parte di essi, sembra essere semplice copia e incolla, un ripetuto cadere nella sterile decontestualizzazione di quanto scritto ne “Il mondo al contrario”. Sempre le stesse frasi, quelle che ricorrono negli innumerevoli editoriali in queste ore comparsi come funghi: i tratti somatici di Egonu, Giulio Cesare, l’esistenza del concetto di normalità.

Non manca, da parte di Pubble, la sottolineatura del curriculum di Vannacci, generale che ha trascorso anni in missione all’estero dove ha potuto entrare in contatto e conoscere un mondo posto a distanza siderale da quel giardino liberal i cui abitanti ora lo attaccano. Un pluridecorato dello stato, così viene definito nel video, attaccato senza, continua la donna, una vera comprensione di quanto da lui espresso.

Conclude infine Ceccantoni, con una frecciata a Crosetto, dissociatosi da quanto scritto dal generale e accusato di aver in questi anni portato i medesimi temi sui palchi da cui ha parlato.

Un uomo che ha combattuto per l’occidente e che viene messo ai margini dell’occidente stesso“, l’ultima, glaciale frase del video.

Il mondo al contrario, i passaggi contestati del libro di Vannacci

La mia società, quella in cui sono nato ed ho vissuto e per la quale ha combattuto mio nonno – classe 1898, che arruolandosi a 16 anni si è fatto la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra di Spagna – tutto sommato mi piace. Sicuramente si può migliorare ma è meglio di molte altre. Mi piacciono le libertà individuali, lo stato di diritto, la libertà di espressione, l’idea di poter avere successo basandosi sulle proprie capacità, l’uguaglianza di fronte alla giustizia, il benessere che ci siamo conquistati ed il progresso a cui siamo stati capaci di giungere. Mi piace la mia cucina, i cantautori nazionali, l’odore del pane fresco al mattino e le campane che suonano la domenica. Le altre culture le rispetto, non le voglio cambiare, a volte le apprezzo e ne so valorizzare alcuni tratti piacevoli e positivi ma non le sostituirei alla mia. E non voglio che nessuno ci provi con la mia. La mia cultura, la considero un dono che i nostri avi ci hanno tramandato con cura e che dobbiamo custodire gelosamente. Sì, perché forse ingenuamente ed illudendomi un po’, ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Paolo Ruffini, di Mazzini e di Garibaldi. E non vi dovete stupire se sono andato così lontano nel tempo. Da adolescente, infatti, leggendo un libro su Annibale ho avuto un’incredibile rivelazione: l’autore, il bravissimo Gianni Granzotto, sosteneva infatti che “sessanta nonni ci dividono oggi da Annibale. Sessanta nonni soltanto. Potrebbero stare tutti in quella stanza della memoria, cucitrice del tempo”. E proprio questo bellissimo esempio mi consente di evidenziare che la cultura di una popolazione ed il tempo a cui fa riferimento sono parametri intimamente legati tra loro. È vero che la cultura è un prodotto storico, è in costante divenire e si arricchisce giorno per giorno mutando ma è anche vero che questi infinitesimali correttivi dell’ultima ora hanno un impatto insignificante su ciò che si è cristallizzato in 5000 anni di storia. Se lo dovrebbero stampare bene nella mente i fanatici della “cancel culture” che vorrebbero tirare un colpo di spugna su storia e tradizioni millenarie. Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2000 anni di cristianità. La società cambia, e così la cultura, ma ogni popolazione ha il sacrosanto diritto, ed anche il dovere, di proteggere le proprie origini e le proprie tradizioni da derive e da tangenti che le snaturerebbero. Sono ormai più di cinquant’anni che abbiamo McDonald’s in Italia e che milioni di italiani si cibano dei suoi prodotti, ma nessuno si azzarda a dichiarare che i panini con hamburger e ketch-up facciano parte della cucina tricolore. E fa benissimo Vissani, o qualunque altro virtuoso della culinaria, ad insorgere quando si vorrebbero applicare delle arbitrarie ed esotiche varianti ad una delle grandi espressioni dell’arte nazionale. Analogamente, per quanto crescano le percentuali di stranieri o di cittadini italiani “acquisiti”, fare il distinguo su ciò che appartiene alla cultura nazionale e ciò che è importato è indice di tutela di un patrimonio culturale vecchio di millenni e non di inutile sciovinismo o di xenofobia.

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