Castel Volturno in mano alla Mafia nigeriana, la “piovra nera”

I padrini han cambiato pelle e accento, mentre l’Italia è teatro inconsapevole di un passaggio di consegne tra due delle più potenti organizzazioni criminali della storia. La mafia non è più solo Cosa nostra.  A Castel Volturno, base europea della mafia nigeriana; succede nelle ville che la borghesia napoletana costruì ai tempi del sogno della…

I padrini han cambiato pelle e accento, mentre l’Italia è teatro inconsapevole di un passaggio di consegne tra due delle più potenti organizzazioni criminali della storia. La mafia non è più solo Cosa nostra.  A Castel Volturno, base europea della mafia nigeriana; succede nelle ville che la borghesia napoletana costruì ai tempi del sogno della riviera romagnola in Campania e che oggi ha abbandonato perché il sogno è diventato un incubo. Attenzione, però, mica sono ville occupate con la forza? La mafia nigeriana è capace delle violenze più atroci ma sa quali sono gli errori da non commettere. Ognuno ha un regolare permesso di soggiorno e un regolare contratto di affitto, tutti mandano i figli nelle scuole italiane e vanno al supermercato dove si servono anche i pochi italiani: l’unica regola da seguire è «non dare nell’occhio», rispettare tutte le formalità richieste dal territorio, evitare di ritrovarsi in assembramenti o essere coinvolti in risse perché per «fare i soldi» bisogna essere invisibili.
Raccontano che quando un «ovulatore» non riesce ad espellere la droga che ha ingerito, viene ucciso a coltellate (per evitare rumore di arma da fuoco), poi lo stesso coltello viene utilizzato per estrarre gli ovuli di droga dalle viscere. Subito dopo il corpo viene ridotto a brandelli e dato in pasto agli animali, per «cancellarlo».
Da Nord a Sud, la mafia nigeriana sta invadendo regioni e città dell’Italia, con o senza la collaborazione dei clan nostrani. Eiye, Black Axe, Viking e Mefite sono le quattro grandi cosche africane, conosciute anche come Cult. A queste si aggiungo i piccoli gruppi e i cosiddetti cani sciolti, per un organico complessivo che raggiunge di diritto le prime posizioni tra le strutture criminali più pericolose al mondo.

Nata intorno agli anni ’80, la mafia nigeriana affonda le sue radici nei campus africani, dove gruppi prevalentemente formati da studenti di etnia Ibo e Yoruba, quindi con un elevato grado di istruzione, riuscirono a garantirsi la protezione dello Stato e del mondo politico grazie a uno scambio di favori che seguì la crisi del petrolio e il conseguente vacillamento della stabilità interna.

 La pietra angolare: il traffico di sostanze stupefacenti. Seguito da quello di organi, il racket della prostituzione, l’ingerenza sulle rotte dell’immigrazione, estorsioni e via dicendo.

Una struttura verticale che fa capo ai Don, le figure di grado più alto, ma nella quale anche le donne (cosiddette maman, fondamentali nella gestione della prostituzione) possono essere investiste di nomine importanti e non solo destinate all’infelice compito di mule per il trasporto intracorporeo di ovuli contenti droga.

La genesi di questa pericolosa mafia parte proprio da quei viaggi tanto rischiosi quanto (se portati a termine) redditizi, che hanno contribuito non poco al successo e all’espansione della cosca in termini materiali e geografici.

Se prima infatti il compito di queste organizzazioni era quello di “stampella” alla quale si appoggiavano le grandi famiglie mafiose, ultimo ma non meno importate il caso dei due boss nigeriani pentiti e della ramificazione che il loro clan aveva intrapreso nel territorio rientrante in quello della famiglia di cosa nostra di “Palermo Centro” (mandamento di “Porta Nuova”), adesso il discorso è decisamente cambiato.
Primo su tutti l’esempio di Castel Volturno, dove la mafia autoctona ha lasciato il posto a una delle perle insanguinate della collana che è l’organizzazione mafiosa nigeriana.

Controllo totale su prostituzione (in particolare quella minorile) ed estorsione senza sconti di pena, neanche per i connazionali che hanno aperto delle attività nel nostro Paese e che – per far fede ai vincoli corleonesi! – sono tra i più martoriati.

Eroina e oppiacei vengono acquistati in Oriente, mentre per la cocaina i ponti conducono in Sud America, per finire con un giro di prostituzione tenuto in piedi grazie al continuo rimpinguamento di forze da sfruttare proveniente direttamente dalle coste libiche

Un po’ come un allievo che supera il maestro, la cosca nigeriana – contro ogni previsione – muove i suoi primi passi nel nord Italia, come afferma la relazione semestrale del 2018 della Direzione investigativa antimafia: “Storicamente, la presenza di comunità nigeriane va fatta risalire, fin dagli anni ’80, specialmente nel nord Italia, in Piemonte, con Torino in testa, in Lombardia, in Veneto e Emilia Romagna”.

Per poi specificare: “ In Italia, il primo arresto di un nigeriano narcotrafficante risale al 1987. L’operatività di gruppi organizzati si è poi estesa, nei primi anni ’90, anche al centro-sud, specialmente in Campania, nel casertano e sul litorale domitio”. Un’ascesa partita dal settentrione e che registra ad oggi un impressionante network malavitoso: eroina e oppiacei vengono acquistati in Oriente, mentre per la cocaina i ponti conducono in Sud America, per finire con un giro di prostituzione tenuto in piedi grazie al continuo rimpinguamento di forze da sfruttare proveniente direttamente dalle coste libiche.

La mafia di Langtan, conosciuta anche così dall’omonima cittadina della Nigeria, è un problema che adesso anche l’Italia, oltre a gran parte dell’Europa, non può più ignorare. Senza contare che questi clan cultisti rivestono una sorta di aggregatore sociale non solo per gli adepti già assoldati che partono dalla Nigeria per approdare poi sulle sponde italiane, bensì “picciotti” si diventa anche una volta in Italia, senza nessuna nozione di base ma con un battesimo a dir poco indimenticabile.

A caratterizzare queste organizzazioni criminali, dunque, non contando il “metodo mafioso” ibrido tra un modello siciliano e quello di una gang, è il rito di iniziazione. “Vengono, infatti, utilizzati riti di iniziazione chiamati ju-ju, molto simili al voodoo e alla macumba, propri della cultura yoruba, immancabilmente presenti in Nigeria, nella fase del reclutamento delle vittime. 

Tali riti diventano, poi, funzionali alla “fidelizzazione” delle connazionali, che una volta giunte in Italia vengono destinate alla prostituzione” notifica il rapporto della Dia.

E ancora, dalle parole di un pentito, è possibile capire la violenza di questi passaggi tribali, spesso traducibili in pestaggi e cruenti sevizie: denudati e buttati a terra, vengono presi a calci e pugni dai confratelli sotto lo sguardo del santone; tagli sul corpo e un calice di sangue e lacrime offerto come prova di fiducia per concludere.

L’affiliazione è dolorosa e lontano dal nostro immaginario comune di ingresso nel mondo mafioso (Cosa nostra generalmente premia chi decide di arruolarsi).

Il primo germoglio criminale nasce proprio nei centri di accoglienza, mentre l’humus in grado di alimentare questa sanguinosa giostra è proprio il flusso degli sbarchi

Questo dovrebbe bastare per capire il livello di pericolosità del fenomeno. Ma dai dettagli emersi durante i processi che hanno coinvolto i primi pentiti della “piovra nera” si capisce che la situazione è ben più grave del previsto: “Un membro dei Maphite è andato a casa di un componente dei Black Axe e ha ucciso la madre, tagliandole il corpo a pezzi. Poi ha portato i resti nella scuola dove il figlio della donna stava seguendo la lezione e li ha buttati lì, scatenando il panico e il terrore. Sono scappati tutti via. Dopo due mesi da questo episodio, i Black Axe sono andati a casa della mamma di un componente dei Maphite e hanno cavato gli occhi ai suoi genitori e poi li hanno decapitati con un’ascia”. Non c’è perdono, tantomeno codici di onore.

A suonare l’allarme sono, inoltre, i centri di accoglienza. Tra “stipendi” d’oro dei veritici dei clan e transazioni di denaro difficilmente rintracciabili, in quanto il metodo utilizzato è quello dell’hawala, niente banche ma una rete fittissima di referenti in vari paesi del mondo (in sostanza fanno rimesse), la questione ha contagiato l’intero dossier immigrazione. Dalla Libia vengono reclutate e obbligate a imbracarsi giovani donne nigeriane, le quali una volta in Italia vengono assegante a un joint, ovvero i posti sui marciapiedi, costringendole non solo a prostituirsi ma tenendo altresì la famiglia, rimasta in patria, in ostaggio. I soldi ricavati da prostituzione e droga, pertanto, sono il carburante che tiene in vita le varie cellule sparse per l’Africa, primo filtro essenziale della cosca.

E qui entrano in gioco i C.a.r.a. Recentemente sono stati bloccati a Parigi, Marsiglia, Nizza, Nancy, una decina di nigeriani, tutti ricercati in Italia e tra cui si nascondeva Happy Uwaya, ritenuto il boss dell’organizzazione.

Secondo lo Sco (il Servizio centrale operativo) gli arrestati erano membri del clan Vikings e avevano come base operativa il Cara di Mineo, in provincia di Catania.

In altre parole, spesso il primo germoglio criminale nasce proprio nei centri di accoglienza, mentre l’humus in grado di alimentare questa sanguinosa giostra è proprio il flusso degli sbarchi.

Non è un caso, pertanto, se il numero di detenuti nigeriani (aggiornato al 31 marzo 2019) è di 1.604 contro i 679 del 2007.

L’indagine Athenaeum di Torino, infine, è la prova di come i tentacoli di questa organizzazione criminale si siano infiltrati in profondità, sostituendo un virus nostrano con un virus straniero.

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